L’opera contemporanea è vita

Pubblicato
Martedì
7 maggio 2024

MATTHIAS LOŠEK
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Coltivare una visione e cercare la “magia” ogni volta che la luce si spegne e lo spettacolo inizia: Matthias Lošek, ha diretto dal 2015 al 2023 il programma dedicato all’opera contemporanea della Fondazione Haydn avendo sempre ben chiari questi obiettivi.
Nel corso del suo mandato, a Bolzano e Trento sono approdati progetti che hanno sfidato il pubblico da molti punti di vista. Alcuni esempi: il racconto biografico, intrecciato a echi di romanzo criminale (Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse, 2018), l’opera da ascoltare in cuffia (Vixen – la piccola volpe astuta, 2019), un’idea di teatro di civile capace di andare oltre la cronaca (Falcone – il tempo sospeso del volo, 2022), l’esplorazione, fortemente attualizzata, di grandi capolavori della letteratura (Peter Pan, 2022 e Dorian Gray, 2023). In questi anni sono fiorite iniziative come il concorso Fringe e il progetto Euregio che hanno dato spazio e fiducia agli artisti del Trentino- Alto Adige e Tirolo.
L’intervista che segue è un viaggio dentro questo percorso e un’ultima occasione per ringraziare Matthias delle idee che ha portato e fatto crescere: sono state serate di emozione e festa, tutte da celebrare!

Matthias Lošek, ci può fare un bilancio della sua esperienza come direttore artistico dell’opera contemporanea per la Fondazione Haydn?

In questi anni abbiamo fatto un lavoro fantastico, davvero unico. Abbiamo creato uno spazio fisico e mentale dove le persone si sono potute fare un’idea di com’è l’opera oggi. Per me ogni buona opera, quando è capace di raccontare qualcosa che riguarda noi stessi, è contemporanea. Se non crediamo a quest’affermazione non crediamo nell’arte, la viviamo solo in modo depotenziato, come una forma di intrattenimento. Vedere, capire – non smetterò mai di ripeterlo – per me l’opera è questo. L’opera può davvero essere un modo divertente di comprendere il mondo: può essere il posto in cui indossare un nuovo abito, ma anche un vecchio paio di jeans. Non è lo specchio per una élite, è il suo opposto. Ecco, in questi nove anni abbiamo cercato di aprire l’opera a tutti in modo definitivo.

Di quale progetto è più orgoglioso? E quali sono le difficoltà che ha incontrato?

Sicuramente tutto il progetto Opera Euregio, ma anche il Concorso di teatro musicale Fringe perché attraverso queste formule siamo riusciti a commissionare nuove opere valorizzando le competenze delle artiste e degli artisti del territorio. All’inizio ci si chiedeva perché qui in Alto Adige? Perché noi? Questo modo di pensare però è l’inizio della fine. Guardiamo un attimo al Met di New York: ha previsto di mettere in scena 17 opere nuove e recenti, tra cui 7 commissioni e i risultati sono stati molto buoni. Penso sia importante che tutti noi apriamo gli occhi. Dopo la pandemia la tendenza generale è stata di pensare che il pubblico aveva bisogno di riavvicinarsi al teatro, all’arte in modo semplice: io non penso sia la strada giusta. A volte mi sembra che nella nostra società tutto debba essere facile, ma la vita non è facile. Sta invece a noi chiederci: perché siamo qui? Cosa stiamo facendo? Chi siamo? E queste domande possono ricevere una risposta negli spazi di un museo, a teatro o all’opera. L’opera Le nozze di Figaro racconta molto dei nostri tempi, più forse del processo contro Harvey Weinstein. A Bolzano sono approdate importanti riflessioni: alcune opere si sono rivolte all’universo femminile. Pensiamo a Peter Pan – il vero titolo doveva essere Wendy – all’opera La Wally, una donna che vuole vivere la sua vita, ma è dominata dal padre, dall’amante, dalla società, o alla Cavalleria rusticana, a La traviata, a La bohème. L’opera contemporanea offre una prospettiva, una risposta, forse solo un accenno di risposta o, come in filosofia, stimola una serie di domande a catena.

 

Quale è stata la sfida più grande?

È stato complesso spiegare alla gente questa mia prospettiva. Sono abbastanza vecchio da permettermi di non essere troppo educato: penso ci siano molte cose sbagliate nel nostro business. E dobbiamo cambiarle, meglio oggi che domani. Non dobbiamo “musealizzare” l’opera, raccontare sempre le stesse storie. Ecco perché mi sono detto: smettila prima di diventare un vecchio uomo bianco al potere. Me lo sono detto ancora 25 anni fa, quando avevo 30 anni e muovevo i miei primi passi ai Bregenzer Festspiele.

È difficile portare l’opera contemporanea in luoghi come Bolzano?

Alcune cose sono iniziate proprio in piccole città come questa. Quindi non vedo la differenza fra Bolzano e Londra o New York. Si tratta invece di portare una visione…e le visioni non hanno nulla a che fare con la geografia. Senza una visione, a mio avviso, non c’è lavoro nell’opera. Oppure, l’alternativa è ragionare come se fossimo in un supermercato, offrendo qualcosa di preconfezionato. Non è più facile lavorare in una grande città: l’ho sperimentato quando ero a Vienna, dove di certo accadono molte più cose e lì non c’è solo un teatro d’opera, una compagnia di danza o un solo gruppo d’opera contemporanea. E questa non è ancora la sfida più difficile. Pensiamo al fatto che oggi, ovunque, si vendono molti meno biglietti. E perché? Perché ci confrontiamo con altre nuove forme di consumo culturale, a partire da Netflix. L’arte deve essere sempre più democratica e non un ghetto per alcune élite. Dobbiamo trovare nuovi modi di comunicare, di presentare il nostro lavoro, in tutti i punti della filiera, dalla conferenza stampa al momento della vendita del biglietto. Io sono un fautore del gioco di squadra: il team building deve iniziare nella cucina dell’istituzione, dall’aperitivo dopo il lavoro, perché qui si possono condividere le idee, si possono discutere i problemi e dare loro la giusta dimensione. Essere tutte e tutti sulla stessa lunghezza d’onda permette di parlare meglio anche al pubblico. Se non ci crediamo noi, perché la gente dovrebbe seguirci? Parte sempre tutto da noi. Non basta poi presentare un progetto al pubblico, è fondamentale celebrarlo. Se presentiamo le cose in modo speciale, se diamo loro la “magia”, il pubblico verrà, perché noi tutti insieme siamo speciali.

C’è un filo conduttore nei progetti che ha portato a Bolzano?

Sì, certamente. Ci siamo detti: se vogliamo dare dei titoli per i diversi programmi, usiamo alcune frasi che riescano a catturare l’immaginazione del pubblico. Siamo partiti con “The irony of life” (Ironia della vita), che ci ha aperto una porta: l’opera è vita che va vissuta in modo ironico, per sopravvivere. Ce lo insegnano “Opera buffa” o il personaggio di Figaro, che è un esempio perfetto di quanto dico. Poi ci sono stati altri titoli e suggestioni: “Love and other cruelties” (Amore e altre crudeltà). Di cosa parla l’opera? Di amore, morte, crudeltà. Amore e crudeltà è il titolo di un film canadese della fine degli anni Novanta. Abbiamo poi avuto “Angel or Demon” (Angelo o demone), ispirato a un altro famosissimo libro. E poi “Once upon a time” (C’era una volta), che portava in sé l’idea che il racconto di una storia sia una specie di rituale che permette di sperimentare al di là del tempo e dello spazio. Con il titolo dell’ultimo programma, “Nothing is written” (Niente è scritto), ho cercato invece di spiegare che ogni opera è l’inizio di qualcosa di nuovo che si ripete continuamente. Questo approccio fa parte del mio DNA, ha molto a che fare con tutto quello in cui credo da sempre.

Se potesse fare una classifica dei lavori più amati quali sceglierebbe?

Sicuramente il progetto Opera Euregio nella sua totalità, ma anche Fringe. Ho amato molto La Wally, una grande produzione, ma anche un lavoro molto difficile, per motivi personali: a febbraio mia madre è morta, ed è morta anche una delle mie più care amiche, molto vicina anche alla regista Nicola Raab. È stato un momento davvero buio, per entrambi. Sono un grande fan dei romanzi gotici e di Edgar Allan Poe, quindi sono legato a The Raven. Ma anche Falcone, il tempo sospeso del volo è stato uno dei miei preferiti: per questo lavoro ho fatto tantissime ricerche, mi sono immerso in ogni forma di contenuto che ha affrontato il tema della mafia e di quel delicatissimo momento della storia italiana. Guardando indietro abbiamo raccontato così tante storie, tutte molto diverse, ma tutte davvero brillanti.

Ultima domanda: cosa augura al team della Fondazione?

Prima di tutti di essere sani, perché la salute è davvero la cosa più importante. E poi di coltivare una visione. Che vita sarebbe senza? È un valore unico: credere in qualcosa che a prima vista non sembra possibile.

E da domani, cosa farà?

Domani svuoterò la mia casa e poi penso che la sera berrò un buon bicchiere di vino rosso insieme a mia moglie. La bottiglia viene da uno dei miei negozi preferiti di Bolzano, Franz Bar, che è stata una buona compagnia negli ultimi nove anni…